C’è chi sogna resort da catalogo e chi preferisce dormire dove il GPS smette di parlare. Gli uni prenotano, gli altri regolano la pressione delle gomme. L’overlanding, oggi, è la versione adulta — e più consapevole — del campeggio, ma anche qualcosa di molto diverso: un modo di viaggiare che ha trasformato l’autonomia in filosofia e la lentezza in arte applicata.
Non si tratta solo di piantare una tenda o di cercare panorami instagrammabili: è un approccio metodico al movimento, dove la destinazione conta meno del percorso e ogni chilometro è un esercizio di indipendenza. L’overlander non cerca l’avventura estrema, ma l’autosufficienza elegante: viaggia con la propria casa, produce la propria energia, conserva l’acqua come se fosse un lusso da intenditori.
Il suo itinerario non passa per autogrill o autostrade, ma per strade bianche, mulattiere e silenzi. È una pratica off-grid, che non nega la civiltà, semplicemente la sospende. Dorme dove può, spesso sul tetto del proprio veicolo, ma lo fa con la compostezza di chi non campeggia: abita temporaneamente il mondo, senza mai occuparlo.
In Italia, dove ogni prato ha un proprietario e ogni vista lago un regolamento, questo modo di viaggiare diventa quasi un atto letterario. L’overlander è un esploratore burocraticamente tollerato: procede con la pazienza di chi aspetta un’autorizzazione, ma lo fa per un fine poetico. Perché l’obiettivo non è arrivare, bensì restare in viaggio, con un equilibrio perfetto tra metodo e meraviglia. E chi riesce a farlo — senza perdere né la dignità né la patente — scopre un privilegio raro: il tempo. Quel tempo sospeso che non scorre tra check-in e check-out, ma tra un tramonto e la voglia di restare.
Tutto comincia con una tenda, ma non una qualunque. Le tende da tetto hanno accompagnato esploratori e pendolari urbani con la stessa eleganza, viaggiando su Land Rover e utilitarie senza mai perdere compostezza. In fondo, una tenda da tetto è una dichiarazione di stile: non serve una villa in Costa Smeralda se puoi avere un tetto panoramico sotto le stelle. L’avventura, del resto, è una questione di proporzioni più che di potenza. Tra le tende da tetto si fanno notare per robustezza quelle rigide o a guscio. Eredi del leggendario modello Maggiolina, raccontano una storia italiana di ingegno e precisione. Ogni apertura, ogni cucitura, ogni centimetro di fibra di vetro racchiude una promessa: dormire bene ovunque.
Accanto, altrettanto fondamentali sono i tendalini e gli annex. Questi ultimi moltiplicano gli spazi come un architetto zen: cucine improvvisate, zone d’ombra e piccoli rifugi mobili che si aprono in un gesto. È l’arte di costruire un salotto temporaneo nel deserto, o in riva a un fiume, senza chiedere permesso al vento. In un mondo che misura tutto in giga e follower, l’overlander misura la propria felicità in metri di cielo. Non cerca il comfort totale, ma il giusto equilibrio tra civiltà e selvaggio: un letto asciutto, una tazza calda e la certezza che la libertà, se ben progettata, può essere anche comoda.
Per chi preferisce viaggiare con un po’ più di comodità, ci sono poi le cellule abitative scarrabili. Sono concepite per rendere un pick-up europeo o americano un piccolo appartamento itinerante. Si montano e smontano in poche ore, si vivono come una casa e si parcheggiano come un ricordo: la libertà, letteralmente, che si può alzare e posare.
I più raffinati, invece, scelgono soluzioni dove l’ingegno incontra il design. Moduli in legno chiaro, montaggio rapido, niente forature: un arredo nomade che trasforma un van commerciale in una stanza luminosa, ordinata, e paradossalmente più accogliente di molti monolocali urbani. Qui ogni dettaglio ha una logica precisa: un tavolo che diventa letto, un vano che nasconde un lavello, una mensola che serve da scala. È la bellezza funzionale dell’essenzialità, l’equilibrio perfetto tra il bisogno e l’idea.
Dopo la tenda, gli annex, i tendalini, i moduli e un’infinità di altri accessori (fondamentali) arriva la tecnica — quella parte del viaggio che non si racconta nelle foto ma che lo rende possibile. L’overlanding è una faccenda di equilibrio: tra peso e potenza, tra comfort e autonomia. Le sospensioni contano più del costume da bagno, i serbatoi dell’acqua valgono quanto un buon romanzo, e ogni bullone diventa un complice silenzioso.
È qui che entrano in scena realtà che non si limitano a potenziare motori e rialzare assetti: insegnano a capire il proprio mezzo, a leggere il terreno e — cosa non secondaria — a non confondere la libertà con l’imprudenza.
E quando tutto è pronto — la tenda montata, la meccanica messa a punto, i moduli assemblati — non resta che partire. Ma partire davvero, cioè con l’idea che la libertà non è improvvisazione. È preparazione, controllo, rispetto del mezzo e del territorio. Una libertà che chiede conoscenza prima ancora di chiedere strada.
La libertà, in Italia, ha sempre bisogno di un permesso, anche quando dorme sotto le stelle. L’overlander lo sa bene: il suo è un Paese dove la parola “campeggio” può valere un verbale, e “sosta” una tolleranza. La distinzione — tanto semplice sulla carta quanto contorta nella pratica — è questa: se il veicolo poggia solo sulle ruote e non sporge oltre la propria sagoma, si parla di sosta; se invece apre tendalini, scalette o tavolini, diventa campeggio. E il campeggio libero, fuori dalle aree attrezzate, è generalmente vietato. Una filosofia di vita che si traduce, burocraticamente, in un balletto di centimetri e interpretazioni.
In mezzo, come sempre, esiste una terra di nessuno: il bivacco notturno, tollerato se discreto e temporaneo. Arrivare al tramonto, ripartire all’alba, non lasciare tracce: un codice d’onore più che una legge scritta, una forma di cortesia verso la natura e verso i sindaci. È una libertà silenziosa, che richiede eleganza più che arroganza.
Per orientarsi in questa geografia di divieti e concessioni, la bussola non basta più. A guidare gli esploratori contemporanei sono oggi le app e le community digitali: veri atlanti sociali del viaggio lento. Park4Night è la Bibbia non ufficiale del movimento, un catalogo collettivo di luoghi dove sostare in sicurezza, recensiti da chi c’è stato e ha lasciato più briciole digitali che rifiuti. iOverlander raccoglie segnalazioni da tutto il mondo, dal parcheggio con vista mare alle piazzole nel nulla, mentre Komoot suggerisce percorsi fuoristrada calibrati sul mezzo e sulle ambizioni. C’è chi documenta tutto su Polarsteps, trasformando il viaggio in un diario grafico; e chi si affida a gruppi Telegram o forum tematici dove si discute con la passione dei salotti di un tempo, solo con più zanzare e meno gin tonic.
La libertà, insomma, si conquista anche con un certo senso di comunità. Gli overlander italiani, pur sparpagliati per valli e deserti, sono un popolo con regole non scritte: condividere informazioni, rispettare i luoghi, lasciare pulito. Nessuno si proclama “pioniere” — perché in fondo la vera rivoluzione è quella di viaggiare senza disturbare. Così, tra mappe offline e consigli di esperti, la sosta diventa quasi una danza diplomatica: un equilibrio tra desiderio e decoro, tra il bisogno di libertà e l’obbligo del rispetto.
Alla fine, l’overlanding in Italia è una scuola di misura. Ti insegna che non tutto ciò che è possibile è permesso, ma anche che non tutto ciò che è regolato è davvero necessario. E forse è proprio in questa contraddizione che si nasconde il suo fascino: un viaggio lento tra codici, cartelli e cieli sterminati, dove la vera conquista non è arrivare, ma restare — con grazia.
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