Dalla voglia di natura al ritorno delle curve, passando per texture avvolgenti, colori caldi e un bianco… molto meno innocente del solito. Il design d’interni sembra sempre viaggiare lungo la stessa scia, ma si sa: la casa è più lenta a reagire ai cambiamenti. Non è certo la moda!
Gli aruspici non si sono sbilanciati, Apollo ha soltanto alzato un sopracciglio e Tiresia (il famoso indovino cieco dell’antica Grecia) ha preferito non compromettersi: a quanto pare, sul futuro del design 2026 regna ancora una foschia che neppure gli dei riescono a dissipare. Eppure, tra un responso mancato e una profezia rimandata, qualcosa sembra muoversi. Alcuni segnali - già affiorati lo scorso anno - tornano più chiari, quasi ostinati, come tendenze che non hanno alcuna intenzione di rientrare nell’ombra.
La natura, per esempio, continua ad avanzare dentro casa con la determinazione di un oracolo ben convinto. Il biophilic design non è più un trend ma un antidoto allo stress: piante vere, vetri trasparenti, legno grezzo, pietre irregolari. Gli interni vogliono respirare come fossero un giardino, con quel mood da “portami fuori, ma senza farmi uscire”. E ora la tecnologia dà persino una mano: dalle serre domestiche alla Fabbrica dell’Aria 2.0, pensata dal team di PNAT guidato da Stefano Mancuso e presentata alla Biennale di Venezia lo scorso anno, i sistemi che purificano l’aria attraverso le piante trasformano il soggiorno in un ecosistema vivente. Un modo delicato, quasi rituale, per ricordarci che il futuro dell’abitare passa anche dalle radici.
Anche i colori smettono di fare la comparsa e tornano a scaldarsi, a ispessirsi, a diventare rifugio. Terracotta, ocra, oliva: addio al freddo da showroom, bentornata terra. Tonalità che abbracciano lo spazio, lo accudiscono e lo rendono più intimo. Perfino gli aruspici riconoscono che un po’ di calore fa bene, soprattutto quando si scruta il futuro tra le viscere.
E poi c’è lui: il nuovo bianco di Pantone. Luminoso, pulito, ossigenato. Un bianco radicale ma non glaciale, capace di ampliare gli ambienti senza sterilizzarli. Perfetto sulle pareti che vogliono vibrare con la luce, sugli arredi in legno chiaro in stile “nuova Scandinavia”, negli spazi piccoli che necessitano di respirare. Non è il bianco ospedale: è il bianco nuova era.
Le forme seguono la stessa traiettoria morbida: basta spigoli, basta rigidità. Il 2026 porta in scena curve, onde, volumi che avvolgono. Divani morbidi, tavoli rotondi (su una gamba sola!) e poltrone che ti abbracciano senza chiedere il permesso. È il soft design che addolcisce le giornate e rende gli spazi più tolleranti, quasi più umani. Eppure, qualche spigolo tenace tenta ancora di fare capolino, pronto a ricordarci che anche nel mondo emotivo del design serve un pizzico di razionalità. Forse al prossimo Salone del Mobile cominceranno una nuova rivoluzione, lenta ma decisa: il design prende consapevolezza un po’ alla volta, senza esagerare.
E i materiali? Non vogliono più essere solo osservati: vogliono essere sfiorati. Bouclé, pietra naturale, intonaci materici, vetro rigato. Texture che chiamano la mano, pretendono attenzione, e ricordano che la casa non è solo immagine, ma sensazione. Se non tocchi, non capisci. Lo abbiamo già visto al Cersaie dello scorso anno: la ricerca sulle superfici è sempre in fermento.
Non è un’impressione: gallerie di design e fiere specializzate, il successo di realtà come Design Miami o Nomade, il crescente interesse per il Novecento e il design da collezione lo confermano. Sempre più collezionisti cercano pezzi storici, non solo per l’estetica ma anche per la loro rilevanza culturale e, in molti casi, come investimento. Le aste specializzate mostrano risultati significativi: un vaso raro di Gio Ponti per Richard Ginori ha superato i €30.000, mentre mobili e arredi di maestri come Osvaldo Borsani, Eileen Gray, Gaetano Pesce o Carlo Mollino raggiungono cifre di decine o centinaia di migliaia di euro, a seconda della rarità e dello stato di conservazione.
In questo mercato in fermento, il design del Novecento torna a essere ammirato e riconosciuto non solo come memoria, ma come patrimonio vivente che continua a dialogare con il presente e, sempre più spesso, anche con il futuro.
Il minimalismo rimane, ma si scalda. Nessuna austerità, nessuna stanza che sembri il cellophane di un museo. È un ordine gentile, fatto di materiali naturali, luci morbide e palette neutre in cui il nuovo bianco Pantone si muove con disinvoltura. Pochi oggetti, ma scelti con cura. Un minimalismo più terapeutico che stilistico. Nel frattempo, il quiet luxury, stabile e rassicurante, sembra aver perso un po’ di smalto, mentre il massimalismo ritorna a prendersi gli spazi con fantasia e coraggio. Lo stile eclettico non teme di urlare la propria personalità, di mescolare forme, epoche e colori, senza rinunciare a un’armonia sorprendentemente calibrata.
Il resto? Gli oracoli tacciono. Non sappiamo se saranno Patricia Urquiola o Philippe Starck a dettare la prossima onda, o quale giovane promessa sorprenderà il mondo. Ma i segni che vediamo — naturali, caldi, morbidi, sensoriali — suggeriscono che il 2026 sarà l’anno in cui la casa smette di imitare e comincia a coincidere davvero con chi la abita. E questa, per gli dei, è già una profezia. Parola di Tiresia.