Il deserto come pagina bianca, le Piramidi di Giza come scenografia millenaria e l’arte contemporanea che si inserisce con delicatezza e devozione in uno dei luoghi più iconici del pianeta. Michelangelo Pistoletto torna a confrontarsi con l’idea di eternità portando in Egitto una selezione delle sue opere specchianti, in un dialogo inedito tra presente e passato, tra materia e riflesso, tra il corpo del visitatore e l’immensità della storia.
L'occasione è la quinta edizione di “Forever is Now” (“L’eternità è adesso”) visitabile fino al 6 dicembre. Qui, tra le opere monumentali di dieci artisti internazionali, spicca anche “Il Terzo Paradiso” di Michelangelo Pistoletto. Per questa nuova interpretazione della sua celebre opera, già presentata più di duemila volte nel mondo, il maestro biellese, oggi novantaduenne, ha scelto blocchi di calcare: la stessa pietra utilizzata in epoca faraonica per costruire le piramidi.
“Il Terzo Paradiso” è un intervento che non invade, ma si sovrappone come un’ombra luminosa: superfici lucide che catturano la luce del sole, pannelli riflettenti che rimandano l’immagine degli spettatori, ma anche il profilo monumentale della Piramide di Cheope, la geometria perfetta della Sfinge, il cielo sospeso sopra il Sahara.
Pistoletto, che da sempre lavora sul concetto di “specchio” come dispositivo filosofico, porta a Giza un linguaggio che conosce bene: superfici riflettenti che non si limitano a mostrare, ma costringono a pensare. L’installazione, concepita come percorso all’aria aperta, trasforma il visitatore nel vero protagonista dell’opera.
I pannelli diventano portali visivi: chi osserva si ritrova dentro l’opera, dentro la storia, dentro l’istante. Allo stesso tempo, le piramidi si moltiplicano attraverso i riflessi, diventando immagine mobile, viva, quasi liquida. È la grande intuizione di Pistoletto: rendere l’immobile dinamico, far vibrare ciò che per definizione è eterno.
L’incontro tra l’arte specchiante e la pietra millenaria non crea contrasto, ma sembra un tutt'uno.
A circolare tra gli addetti ai lavori è la notizia, non ancora confermata, che l’artista possa raggiungere Il Cairo nei prossimi giorni, a svelare un desiderio che sembra essere molto forte, quello di vedere le sue creazioni immerse nel paesaggio monumentale di Giza.
Il franco-beninese King Houndekpinkou propone White Totem of Light, una colonna assemblata con frammenti di ceramica recuperati in una fabbrica del Cairo, pensata come ponte simbolico con l’antica storia egizia.
La brasiliana Ana Ferrari porta Wind, una spirale composta da ventuno enormi flauti in alluminio lucidato: grazie alle correnti del deserto, la struttura si trasforma in un’installazione sonora in continua evoluzione.
Il sudcoreano Jongkyu Park ha invece preso le proporzioni della Grande Piramide come matrice per la sua installazione Code of the Eternal: mille specchi cilindrici in acrilico conficcati nella sabbia compongono un messaggio in codice Morse che immagina un dialogo tra Tangun, mitico fondatore del primo regno coreano, e un faraone del suo stesso tempo.
L’americana Alex Proba invita il pubblico a una meditazione sulla dimensione temporale con Echoes from Infinite: tre sculture che, viste da specifiche prospettive, si uniscono in un’unica forma maestosa, richiamando l’armonia geometrica delle piramidi.
Il portoghese Alexandre Farto, conosciuto come Vhils, ha raccolto porte provenienti da Il Cairo e da altre città del mondo per un’installazione che evoca la stratificazione e lo scavo tipici dell’archeologia.
Il turco Mert Ege Kose espone una scultura in alluminio e leghe malleabili dalle superfici specchianti, ispirata allo Shen, simbolo di eternità, completezza e protezione divina.
Il libanese Nadim Karam presenta Desert Flowers, tre sculture che emergono dalla sabbia come fiori di loto, ciascuna contenente racconti raccolti in Libano.
Il collettivo russo Recycle Group è presente con Null (Zero), una serie di figure umane in rete plastica che alludono alla condizione digitale contemporanea, dove l’individuo rischia di rimanere intrappolato in una trama immateriale che modifica la percezione del reale.
Chiude il percorso l’artista egiziana Salha Al-Masry, che espone Maat: un grande anello ispirato a una piccola reliquia faraonica incisa con i principi di verità, giustizia, ordine cosmico, rettitudine e onestà. L’oggetto, da simbolo privato, si trasforma in uno spazio collettivo.
A collegare tutte le opere è la volontà di confrontarsi con il peso della storia, mettendo in luce contrasti e visioni future che affondano le radici nella memoria dell’antico Egitto.
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