A settant’anni, Adelmo Fornaciari – per il mondo intero Zucchero – non è solo un uomo né solo un cantante ma piuttosto un linguaggio, una voce che ha attraversato generazioni e continenti, e che risuona come simbolo di libertà artistica. La sua cifra stilistica, roca e imperfetta, ha trovato da sempre un riflesso nell’immagine pubblica: un’estetica che non è stata mai mero ornamento, ma sostanza narrativa. Dai palchi emiliani al Mississippi, dalle piazze italiane ai grandi festival internazionali, Zucchero ha incarnato un’idea di musica che si lega al vissuto, alla terra, al corpo. La sua figura – cappelli a falda larga, occhiali scuri, giacche consumate come partiture – è rimasta impressa tanto quanto le note di Senza una donna, Diamante, Il Volo o Baila (Sexy Thing), Blu.
La carriera di Zucchero è un catalogo di successi che hanno attraversato confini e generazioni. Album come Blue’s (1987), Oro, incenso e birra (1989) e Spirito DiVino (1995) hanno portato il blues in Italia e l’Italia nel mondo. Senza una donna, scritta insieme a Frank Musker, è diventata un classico internazionale, soprattutto nella versione in duetto con Paul Young. Diamante, dedicata alla nonna, resta una delle ballate italiane più amate di sempre. Miserere, composta con Bono e cantata con Pavarotti, è entrata nella storia come simbolo dell’incontro tra popolare e lirico. E poi Diavolo in me, Così celeste, Overdose d’amore, Baila (Sexy Thing): brani che hanno fatto ballare, emozionare e piangere milioni di persone. Con oltre 60 milioni di dischi venduti, Zucchero è l’artista italiano più internazionale dopo Andrea Bocelli.
Il cappello, per Zucchero, non è mai stato un dettaglio. È un segno identitario, una dichiarazione di stile, quasi una corona laica. Ne possiede centinaia, ciascuno con una propria storia: cappelli ampi e decorati per i grandi eventi, modelli più sobri per i concerti intimi o le apparizioni pubbliche meno solenni. Indossati a Sanremo, a Hyde Park, nelle serate di Pavarotti & Friends, sono diventati parte integrante del personaggio. Ogni cappello riflette uno stato d’animo, un’epoca, un momento preciso del percorso artistico. Alcuni hanno assunto una dimensione quasi liturgica, altri hanno raccontato la semplicità di chi non ha mai dimenticato la propria radice contadina. In ogni caso, Zucchero li ha trasformati in simboli.
Accanto ai cappelli, le giacche hanno scritto la sua estetica. Velluti sdruciti, lane ruvide, pellami segnati dal tempo: tessuti che raccontano storie, che portano addosso il segno della vita. A Sanremo, le sue giacche non temevano i riflettori perché già idealmente intrise di polvere di strada; nei tour internazionali dialogavano con la tradizione blues americana, mantenendo però una traccia mediterranea inconfondibile. Per Zucchero, l’eleganza non coincide mai con la perfezione formale: è piuttosto una narrazione fatta di rughe, cicatrici e memorie, un modo di abitare i vestiti che riflette lo stesso spirito con cui ha sempre abitato la musica.
Gli occhiali fumé hanno rappresentato un altro tratto distintivo di Zucchero. Non solo un accessorio scenico, ma una barriera discreta, un filtro tra sé e il pubblico. Schermano lo sguardo, ma lasciano parlare la voce e i gesti: una scelta estetica che racconta riservatezza e desiderio di protezione. Dietro quelle lenti, l’artista ha custodito la sua vulnerabilità, rivelando che lo stile può essere anche silenzio, sottrazione, capacità di non esibire tutto. È una lezione di eleganza maschile antica, che contrasta con la smania contemporanea di mostrarsi senza filtri. Zucchero, invece, ha sempre preferito che fossero i suoni e le emozioni, non lo sguardo diretto, a raccontare la sua verità.
Gli stivali, consumati e autentici, hanno completato l’iconografia zuccheriana. Non da passerella, ma da palco e da strada. Indossati nei tour come nei rientri in provincia, raccontano la fisicità dell’artista, il suo passo, il suo modo di occupare la scena. Sono simboli di radicamento: calpestano l’Italia rurale e insieme il terreno sacro del blues americano. Ogni graffio, ogni segno della pelle usurata, è parte di una biografia che non ha mai ceduto alla patina. Gli stivali parlano di viaggi, di notti in studio, di chilometri di palco ma, nonostante il successo planetario, Zucchero è rimasto sempre con i piedi ben piantati a terra.
Il guardaroba di Zucchero – cappelli, giacche, occhiali, stivali – è entrato nell’immaginario collettivo come codice stilistico di una ribellione elegante. Molti hanno provato a copiarlo, pochi ci sono riusciti, perché non si tratta di indossare un capo ma di infondergli vita. Questo legame tra estetica e identità ha reso il suo stile inseparabile dalla sua voce: entrambi ruvidi, caldi, imperfetti, eppure indimenticabili. È per questo che Zucchero, a differenza di tanti altri cantanti, è diventato icona non solo musicale ma anche visiva, un artista che ha fatto scuola non con la perfezione, ma con l’autenticità.
Zucchero non è stato soltanto un fenomeno estetico, ma anche una forza di relazioni. Memorabile il suo sodalizio con Luciano Pavarotti: insieme hanno dimostrato che il blues e l’opera possono fondersi in un linguaggio universale. Ma anche le collaborazioni con Eric Clapton, Sting, Bono, Ray Charles, B.B. King e Miles Davis hanno segnato la sua carriera. In ognuno di questi incontri, l’immagine e lo stile si sono adattati e trasformati: accanto a Clapton, le sue giacche erano più blues che mai, con Pavarotti, i cappelli assumevano la solennità di maschere teatrali, con Bono, la sua figura diventava ponte tra ribellione e spiritualità. Ogni sodalizio è stato dunque musica, certamente, ma anche estetica. Zucchero ha spesso parlato del suo approccio sincero alla musica, dell'importanza di restare fedele a sé stessi piuttosto che cercare l'approvazione generale. "Ognuno fa quello che sente di fare, ma non è che tutti devono sempre essere contenti". Questa affermazione riassume bene la sua filosofia: l’arte non è compromesso verso il consenso universale, ma un’espressione personale che può non piacere a tutti, ma che conserva comunque la sua verità.
Oggi, celebrando i suoi settant’anni, non si può separare il musicista dall’icona. La sua eredità non si misura solo in milioni di dischi venduti, in concerti sold out o in canzoni che hanno fatto la storia, ma anche nell’aver insegnato a generazioni di artisti e spettatori che si può essere eleganti nella dissonanza, autentici nell’imperfezione, grandi proprio perché si resta veri. Il cappello calato sugli occhi non è un gesto vintage, ma un atto di stile e di ribellione che continua a parlare. La voce roca non è una reliquia, ma la prova che l’arte resiste al tempo. Zucchero, a settant’anni, resta un ribelle gentiluomo che ha fatto scuola e che, probabilmente, continuerà a farla.
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