La musica è aria che si consuma, la fotografia è luce che si conserva. Quando si incontrano, il tempo perde la sua natura effimera e diventa memoria da collezione. Nel centro storico di Alba, si trova la Wall of Sound Gallery. Due vetrine che espongono fotografie in bianco e nero di musicisti colti nel pieno di un concerto.
Leggende del rock e del jazz colte nel momento più vero. Non sono souvenir per turisti, ma visioni che costringono a fermarsi: volti illuminati da un riflettore, mani che afferrano un microfono, sudore e poesia fissati per sempre.
Da lì nasce la domanda: collezionare fotografie di artisti è un vezzo o è piuttosto una forma di collezionismo d’arte con tutte le carte in regola?
Perché di questo si tratta: non poster da cameretta, ma stampe d’autore, tirature limitate, opere con una genealogia precisa. Lo dimostra la storia della fotografia musicale, che affonda le radici negli anni Trenta con William Paul Gottlieb. Giornalista per vocazione, fotografo per necessità, Gottlieb fu costretto a impugnare la macchina fotografica quando i giornali non pagavano i fotografi di scena. In quel gesto “forzato” c’era però un’intuizione: grazie a flash stroboscopici e nuove pellicole ad alta esposizione, riusciva a catturare i musicisti nei club bui, quando la luce sembrava impossibile.
Non scattava a caso: studiava le performance, prendeva appunti mentali sui momenti salienti, aspettava che il volto si illuminasse di sforzo ed emozione. Le sue immagini, celebri quanto gli artisti che ritraevano, hanno trasformato il semplice documento in arte, o meglio in ciò che il critico Whitney Balliett definì “fotografare la musica”.
Negli anni Sessanta e Settanta, la fotografia musicale diventa linguaggio autonomo. Annie Leibovitz trasforma l’ultimo abbraccio tra John Lennon e Yoko Ono in un’icona universale. Mick Rock, “l’uomo che ha fotografato i Settanta”, definisce l’estetica del glam e del punk con uno stile dissacrante.
Jim Marshall, con il suo accesso illimitato, consegna al mondo Johnny Cash che mostra il dito medio a San Quentin: non uno scatto, ma una filosofia di vita. Anton Corbijn, con il bianco e nero rarefatto, scava nella vulnerabilità dei Joy Division. Non è documentazione, è costruzione di immaginario.
In Italia, il nome inevitabile è Guido Harari. Nato al Cairo, cresciuto a Torino, autodidatta in un Paese che ignorava la fotografia musicale, Harari non ha mai puntato al trofeo, ma all’incontro. Non cronista, ma compagno di viaggio.
Lou Reed sosteneva che nei suoi ritratti riusciva a cogliere “la poesia e il sentimento che altri fotografi tendono a ignorare”. Dal 2011 ha creato ad Alba la Wall of Sound Gallery, primo spazio italiano interamente dedicato alla fotografia musicale, un vero “muro di immagini” in dialogo con la tradizione della musica. Non solo una galleria, ma un laboratorio che interroga il senso stesso del collezionare: perché appendere in casa il volto di un musicista, trasformare una foto in opera d’arte da possedere?
Harari è chiarissimo: «Alla musica sono legati ricordi indelebili. Acquistare una fotografia di un musicista, allo stesso modo dell'acquisto di un’opera d’arte o di un libro, definisce e conferma la nostra identità». Non solo memoria personale, dunque, ma affermazione culturale, un modo per dire chi siamo. E se lo scatto è firmato, numerato, tiratura limitata, allora entra di diritto nel sistema del collezionismo d’arte.
La scelta di un’immagine non è mai casuale: «Si può scegliere quella che meglio rappresenta l’artista o la percezione che ne abbiamo», continua Harari. Le foto più ricercate sono quelle che colgono gli artisti nell’intimità, con la guardia abbassata. Non il palco, ma il retroscena, quando la star diventa umana e lo spettatore può riconoscersi. In quel momento la fotografia non è più cornice, diventa specchio.
Gli aneddoti confermano questa forza. Uno riguarda Vasco Rossi: un suo ritratto realizzato da Harari è diventato, chissà perché, una delle immagini più tatuate dai fan. È lo stesso fotografo a sognare di radunare un giorno tutte queste persone e farne un ritratto corale: identità individuali che diventano moltitudine. È il passaggio dal poster appeso in camera alla pelle, dall’oggetto alla carne viva.
Un altro episodio riguarda la copertina di Heroes di David Bowie. Una coppia inglese esitava sull’acquisto, Harari li convinse a scegliere quella stampa ormai quasi esaurita. Oggi quella fotografia ha decuplicato il suo valore. Segno che il collezionismo fotografico musicale non è solo memoria o estetica, ma anche investimento, con dinamiche simili a quelle del mercato dell’arte.
E qui sta il punto: collezionare fotografie di musicisti non è affiancabile alle raccolte di curiosità. È la naturale prosecuzione del collezionismo d’arte, con un linguaggio che porta dentro di sé il potere della musica. Una fotografia d’autore non si consuma nello scroll compulsivo di uno smartphone: resiste, si fa oggetto tangibile, opera da appendere e tramandare.
In un’epoca di immagini effimere e replicabili all’infinito, scegliere una stampa d’arte significa rivendicare la permanenza. Non è un acquisto, è un atto culturale. Perché se la musica è la più immateriale delle arti, la fotografia è ciò che le restituisce corpo. E possedere quel corpo, appendere al muro il volto di un artista, significa avere un bis tutto per sé: un concerto che non finisce mai.