Ad Amsterdam è arrivata Barbie The Dream Experience, la mostra immersiva che trasforma 2.000 metri quadrati in un gigantesco mondo rosa. Dodici ambienti a grandezza naturale ripercorrono oltre sessant’anni di moda, sogni e cultura pop, dimostrando che l’icona Mattel non è mai davvero passata di moda.
C’è chi si illude che la storia dell’arte sia fatta soltanto di pennelli e scalpelli. Poi arriva Barbie, e con la sua perenne piega perfetta ci ricorda che la cultura visiva del Novecento non l’hanno dettata i pittori informali né i minimalisti americani, ma una signora di plastica lunga 29 centimetri.
Una figura che, anche dopo il successo del film Barbie di Greta Gerwig con Margot Robbie e Ryan Gosling, continua a reinventarsi come fenomeno di cultura pop globale.
Ora questa signora diventa gigantesca, si moltiplica in dodici ambienti, colonizza duemila metri quadrati ad Amsterdam e pretende di raccontarci, senza neanche arrossire, sei decenni di sogni prefabbricati.
Barbie The Dream Experience è un luna park nostalgico che ha l’ardire di chiamarsi esperienza immersiva. Non ci si bagna, non si rischia di cadere, non si prova vertigine alcuna. L’unico rischio è quello di inciampare nella propria memoria infantile, nel ricordo di un camper fucsia o di un guardaroba che non sarebbe entrato nemmeno nella cabina armadio di una principessa decaduta.
Qui, ogni decennio è stato ricostruito come un teatrino. Negli anni Sessanta, Barbie mette il casco e si finge astronauta, pronta a conquistare la luna: una conquista rosa shocking, che oggi sembra più vicina a un set cinematografico che a Cape Canaveral.
Negli anni Settanta, eccola a Malibu, tra il surf e il flower power: la libertà tradotta in plastica abbronzata. Negli anni Novanta, esplode la capigliatura di Totally Hair, chilometri di chiome sintetiche che raccontavano, senza pudore, la religione del look.
L’intero percorso sembra concepito come una Wunderkammer contemporanea, un gabinetto delle curiosità non più popolato da coralli e conchiglie, ma da motoslitte rosa, case da sogno e veicoli che hanno fatto girare più immaginazione di una Biennale intera. È un museo del kitsch, ma senza la consapevolezza di esserlo. E forse sta qui il suo fascino: Barbie non ha mai chiesto di essere arte, ma l’arte – povera o ricca che sia – ha sempre finito per assomigliare a lei.
Entrando nelle sale di The Dream Experience al numero 88 di Meeuwenlaan ad Amsterdam, in uno spazio di 2.000 metri quadrati trasformato in un gigantesco teatrino rosa, si ha l’impressione di trovarsi in un frigorifero dei ricordi, dove ogni emozione è sigillata con cura, sterilizzata e ripresentata in versione pastello. Non c’è traccia di polvere, di imperfezione, di vita vera. Ogni ambiente è ordinato con la precisione di un concept store di lusso: nulla è lasciato al caso, nulla rischia di turbare.
La nostalgia qui non è spontanea, è confezionata sottovuoto. Ci si muove tra camper scintillanti e case da sogno come tra scaffali ben allineati, eppure il richiamo funziona. Barbie, con il suo sorriso immobile e inalterabile, non mostra mai la fatica del tempo: è il contrario della vita reale, ed è proprio questo a renderla irresistibile.
Se si osserva con meno ironia, si scopre che Barbie è stata, suo malgrado, la migliore antropologa del secondo Novecento. Ha raccontato i desideri più profondi e le illusioni più ingenue. L’America spaziale, la California spensierata, la società estetizzante degli anni Novanta: tutto condensato in silhouette esili e occhi di vetro. Non c’è bisogno di leggere saggi di sociologia quando basta aprire il catalogo Mattel di un dato anno.
In questo senso, l’esperienza di Amsterdam non è un semplice parco tematico. È un atlante dei nostri sogni deformati, un manuale di antropologia popolare in dodici capitoli scenografici - proprio come accade in altre mostre immersive dedicate alla cultura pop nel mondo. Non ha la dignità di un museo, ma neppure l’ingenuità di un giocattolo: è quella terra di mezzo dove il consumo diventa rito collettivo, e la plastica diventa poesia involontaria.
L’esperienza insiste nel presentare Barbie come simbolo di emancipazione, capace di incarnare libertà e possibilità infinite. E qui il sorriso si fa più sottile: può una bambola con una vita impossibile e un corpo fuori da ogni proporzione diventare emblema di libertà? Forse sì, forse no. Ma il gioco funziona proprio grazie a questa contraddizione: Barbie è al tempo stesso amica e nemica, promessa e inganno. È la cartolina spedita da un mondo che non esiste, e proprio per questo irresistibile.
In fondo, la sua forza è tutta qui: nel continuare a essere credibile pur non essendolo mai stata. Nessuno ha mai pensato davvero che Barbie rappresentasse la realtà, eppure tutti – bambine, bambini, adulti nostalgici – hanno continuato a darle retta. E Amsterdam, con i suoi dodici ambienti a tema, non fa altro che ribadire questa grande illusione rosa.
Che l’esperienza nasca ad Amsterdam non stupisce: città mercantile per eccellenza, capace di trasformare tulipani in oro e biciclette in culto. Qui Barbie diventa il nuovo souvenir, più persistente di un dipinto di Vermeer e più redditizio di un diamante tagliato. È il capitalismo travestito da sogno, ma con una grazia che non turba nessuno.
Amsterdam è il luogo dove si può camminare tra Rembrandt e Van Gogh la mattina, e nel pomeriggio perdersi nella DreamHouse di Barbie. È il perfetto esempio di quella schizofrenia estetica che caratterizza il nostro tempo: non più distinzione tra arte e intrattenimento, tra gioco e cultura, ma una grande giostra nella quale ogni immagine ha la stessa dignità.
Forse la verità è che Barbie è l’artista concettuale più coerente che ci sia mai stata. Non ha mai dipinto, non ha mai scolpito, eppure ha creato mondi interi. Ha plasmato la fantasia più di certi movimenti d’avanguardia, ha dato forma al desiderio più di molti designer. E ora si reinventa come installazione totale: una mostra nella quale noi, spettatori, siamo i veri performer.
In questa esperienza non c’è spazio per il dubbio critico. Non ci sono tesi da dimostrare. C’è solo l’evidenza: Barbie è ancora qui, ci guarda, ci seduce. Non con la grazia di un’opera d’arte, ma con la tenacia di un marchio che non vuole morire.
Alla fine, ciò che The Dream Experience celebra non è Barbie in sé, ma la nostra incapacità di liberarci da lei. È il trionfo dell’infanzia congelata, la consacrazione del kitsch a valore assoluto. Si esce da quelle stanze non con una nuova consapevolezza, ma con un sorriso idiota e forse una busta di merchandising in mano.
Ed è proprio questo il miracolo: non c’è bisogno di crederci davvero. Barbie funziona perché ci lascia in quella zona grigia (ma in versione totalmente sfumata di rosa) tra fede e ironia, tra sogno e caricatura. Non è arte, non è vita, non è neanche gioco. È Barbie, e tanto basta.
La mostra è aperta tutti i giorni e a tutte le età, perché il richiamo della plastica non conosce anagrafe.
Non c’è - al momento - una data di chiusura: Barbie sembra destinata a restare qui per sempre, come certe zie che non smettono mai di raccontare la loro giovinezza.
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