Il 15 ottobre, ad Atlanta, inaugura la mostra “André Leon Talley: Style Is Forever”, un omaggio alla vita e all’eredità di uno dei personaggi più visionari della moda contemporanea. Ma più che un semplice evento espositivo, è il segnale che il mito di Talley continua a vivere — nei corridoi delle redazioni, nelle passerelle, nei sogni di chi ancora crede che la moda sia un linguaggio di libertà.
Perché André Leon Talley non è stato solo un editor, né semplicemente l’uomo col caftano e la voce tonante che dominava la prima fila alle sfilate. È stato un ponte tra mondi: il ragazzo cresciuto nel profondo Sud segregato degli Stati Uniti che divenne il direttore creativo di Vogue America, amico intimo di Karl Lagerfeld e Anna Wintour, custode della memoria della couture e promotore di una nuova idea di rappresentazione nel fashion system.
A tre anni dalla sua morte, la sua figura resta inimitabile: quella di un uomo che ha fatto della moda un campo di battaglia intellettuale, un modo per affermare dignità, diversità e grandezza. La mostra di Atlanta diventa dunque un pretesto per tornare a chiedersi chi fosse davvero André Leon Talley e perché la sua voce, anche oggi, manca così tanto.
Talley amava dire: “I don’t live for fashion, I live for style”. Dietro quella distinzione, apparentemente sottile, si nascondeva tutto il suo manifesto estetico. La moda, per lui, era consumo, tendenza, vanità. Lo stile, invece, era sostanza, eredità, cultura.
Entrato nel mondo dell’alta moda dopo un apprendistato con Diana Vreeland al Metropolitan Museum of Art, Talley portava nella redazione di Vogue una sensibilità che univa la letteratura, la storia dell’arte e la tradizione afroamericana del racconto orale. Le sue recensioni erano performance, le sue interviste veri atti teatrali. Quando nel 1988 divenne creative director del magazine, fu il primo afroamericano a occupare quella posizione — un traguardo simbolico in un’industria che allora si concedeva poco alla diversità, soprattutto ai vertici.
Il suo modo di vestirsi, con i celebri caftani su misura di Tom Ford o i mantelli firmati Lagerfeld, non era esibizione: era linguaggio. “Ogni mio abito è una corazza contro l’irrilevanza”, dichiarava. Talley aveva capito che il corpo nero e queer, in un contesto bianco e patinato, doveva occupare spazio — fisico e narrativo — per esistere davvero.
Chi ha conosciuto André Leon Talley racconta un uomo generoso, capace di elevare chiunque avesse talento e visione. È stato tra i primi a riconoscere il genio di John Galliano, ha sostenuto Marc Jacobs agli esordi, ha incoraggiato Michelle Obama nella scelta di abiti simbolici durante la presidenza. Per molti, era un’enciclopedia vivente: “Quando parlava di un abito, citava una regina francese, una scena di Visconti e una sfilata di Balenciaga nello stesso respiro,” ricordava Anna Wintour.
Il suo sguardo sulla moda era quello di un antropologo: la osservava come fenomeno culturale, non come frivolezza. In un mondo che spesso confonde eleganza e potere, Talley insegnava che l’eleganza è una forma di autorità, e che vestirsi con grandezza può essere un atto politico.
Dopo la sua morte, nel gennaio 2022, molti hanno parlato di lui come dell’ultimo vero “grande editore” di moda. In un’epoca di influencer e algoritmi, Talley rappresentava l’idea di una critica capace di dettare il tono culturale, non solo estetico.
Era un uomo di misura e di eccesso insieme, in grado di citare Proust mentre parlava di Valentino, o di passare da una messa gospel a un gala del Met con la stessa solennità.
“Era un re,” disse Naomi Campbell. “Non solo per come si vestiva, ma per come faceva sentire chi gli stava accanto: visto.” E forse è proprio questa la sua eredità più preziosa — l’idea che la moda, nel suo massimo splendore, possa essere un modo per riconoscere l’altro.
Style Is Forever non è soltanto il titolo di una mostra, ma una verità che Talley ha lasciato in eredità a tutti noi: lo stile, quando nasce dall’anima, davvero non muore mai.
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