Non è un caso che proprio Frankenstein, il nuovo film di Guillermo del Toro con Jacob Elordi e Mia Goth, riporti in primo piano il dialogo tra cinema e mondo del lusso. Per la pellicola, Tiffany & Co. ha collaborato con il reparto costumi, fornendo pezzi d’archivio e creazioni realizzate su misura. Un intervento che non appartiene strettamente alla moda ma al suo territorio più ampio, quello del costume, dell’estetica e del desiderio; e che racconta una tendenza ormai evidente: le grandi maison e i marchi del lusso vogliono essere parte attiva del linguaggio cinematografico, non solo sue comparse.
Se un tempo la moda prestava abiti e accessori, oggi partecipa alla costruzione dell’immagine, dell’atmosfera e del significato. È la naturale evoluzione di un rapporto che, negli ultimi anni, ha assunto forme sempre più strutturate: divisioni di produzione interne, fondi per il cinema d’autore, film-collezione. In breve, la moda non fornisce più il guardaroba del film: ne costruisce la visione.
Il caso più emblematico di questa trasformazione è Saint Laurent, che con la Saint Laurent Productions, è la prima casa di moda ad aver creato una divisione cinematografica autonoma, con la supervisione del direttore creativo Anthony Vaccarello. “La sua attività si legge sul sito - mira a supportare talenti cinematografici che hanno ispirato Vaccarello, in linea con la visione futura del marchio e con la ricchezza cinematografica delle sue collezioni”. Da qui nascono film firmati da registi come Pedro Almodóvar, Abel Ferrara, Paolo Sorrentino, David Cronenberg e Jim Jarmusch. Proprio dalla collaborazione con Jarmush arriva anche la prima grande soddisfazione, la vittoria del Leone d’Oro all’ultima Mostra del Cinema di Venezia.
L’obiettivo non è pubblicitario, ma estetico: riportare la moda a un ruolo di mecenate culturale. I film di Saint Laurent non parlano del brand, ma ne riflettono la sensibilità — la stessa che Vaccarello traduce in abiti e campagne.
Sulla stessa linea si muove Fondazione Prada, che ha da poco istituito il Prada Film Fund, un programma di sostegno al cinema d’autore con un budget annuale di 1,5 milioni di euro. Un progetto che risponde alla visione di Miuccia Prada: considerare la moda non come ornamento, ma come strumento intellettuale per osservare e interpretare la contemporaneità. L’intervento nel cinema non è dunque un’estensione del marketing, ma un modo per consolidare un linguaggio culturale coerente con l’identità del marchio.
A rappresentare al meglio questa osmosi tra moda e cinema è Luca Guadagnino, regista che ha fatto della sensibilità materica e visiva la propria firma autoriale. La collaborazione con Jonathan Anderson - oggi direttore creativo di Dior e prima alla guida di Loewe e JW Anderson - nei film Challengers e Queer non è stata un semplice esercizio di stile, ma un dialogo concettuale. Nei loro progetti, i costumi non si limitano a raccontare i personaggi: ne riflettono i conflitti, i desideri, la fisicità. La T-shirt Loewe “I Told Ya” di Loewe indossata da Zendaya in Challengers è diventata un oggetto di culto non solo per il pubblico, ma anche per l’industria, capace di sintetizzare l’estetica contemporanea di un’intera generazione.
Il cinema di Guadagnino dimostra che la moda può diventare forma di scrittura visiva, e che la collaborazione tra regista e designer può produrre un linguaggio condiviso, dove il vestito è parte della sceneggiatura tanto quanto la parola.
L’altro segnale di cambiamento arriva da Demna, che per il suo debutto alla direzione creativa di Gucci ha scelto di sostituire la sfilata tradizionale con un cortometraggio interpretato da Demi Moore. Il film, più che mostrare una collezione, costruisce un’emozione. È la prova di quanto la narrazione cinematografica sia diventata il canale privilegiato per comunicare la moda: più profonda della passerella, più intima del fashion film, più duratura di una campagna. Nel gesto di Demna - che aveva già sperimentato qualcosa di simile con Balenciaga The Lost Tape - si legge la volontà di superare la distinzione tra moda e racconto, tra collezione e trama.
Il legame tra moda e cinema non è nuovo, ma la differenza rispetto al passato è nella qualità dell’intento. Negli anni Duemila il lusso utilizzava il cinema come vetrina: basti pensare all’impatto di Sex and the City o Il diavolo veste Prada nel trasformare accessori e abiti in status symbol globali. Oggi, invece, le maison cercano nel cinema una forma di legittimazione culturale. Non basta più essere indossate dai protagonisti: vogliono essere parte del racconto. La moda, in questo senso, recupera la sua funzione originaria di mecenate: finanzia, produce, ispira. Non solo abbellisce la scena, ma la genera.
Dai gioielli d’archivio di Frankenstein ai film d’autore prodotti da Saint Laurent e Prada, fino alle narrazioni di Guadagnino e Demna, la moda e il cinema oggi formano un unico ecosistema culturale. Le maison si propongono come nuovi centri di produzione estetica, capaci di influenzare tanto la forma del film quanto quella del desiderio collettivo. In questo scenario, il confine tra costume e abito, tra set e passerella, tra autore e direttore creativo, diventa sempre più poroso.
Il cinema trova nella moda un alleato che lo sostiene economicamente e ne rinnova il linguaggio visivo; la moda trova nel cinema la possibilità di durare oltre la stagione, di trasformare il proprio immaginario in mito. Ed è forse questo il segno più interessante del presente: il lusso non si accontenta più di apparire, vuole raccontare.
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