Quando la moda italiana incontra la sua musica, non nasce un semplice sottofondo: prende vita un racconto identitario. È accaduto alla Milano Fashion Week, dove la Spring Summer 2026 di Dolce & Gabbana ha trasformato la passerella in un palcoscenico emotivo grazie a tre brani di Patty Pravo – Notti bianche, Pensiero stupendo e Qui e Là.
La voce della cantante veneziana ha scandito il ritmo degli abiti, guidato i giochi di luce e cucito insieme le falcate delle modelle, come una drammaturgia sonora che non si limita ad accompagnare ma a raccontare. Un notturno sensuale con Notti bianche (versione italiana di It’s a Heartache), una scossa trasgressiva con Pensiero stupendo, un’eco sixties leggera con Qui e Là: tre atmosfere, tre stati d’animo, un’unica narrazione.
Così la memoria musicale italiana è diventata tessuto invisibile della collezione, dimostrando ancora una volta che le passerelle, come il cinema, non si limitano a mostrare: mettono in scena e lo fanno con un sottofondo profondamente, intensamente italiano.
Le maison italiane hanno spesso trasformato la passerella in autentici palcoscenici musicali, facendo della colonna sonora un dispositivo narrativo. Dolce & Gabbana, fin dagli anni Novanta, hanno scelto come cifra stilistica Cavalleria rusticana di Pietro Mascagni, che — secondo il loro stesso archivio — fu la prima musica a inaugurare le loro sfilate nel 1984. L’opera, intrisa di radici siciliane e dramma verista, è riemersa in momenti-chiave: dall’evento di Alta Moda a Siracusa nel 2022, dove la collezione fu presentata nel Teatro Greco con la partitura come leitmotiv, fino alla collezione uomo AI 2025-26, accompagnata da nuovi arrangiamenti tratti dalla stessa partitura.
Gucci, con il debutto di Sabato De Sarno nella Spring Summer 2024, ha invece affidato la regia sonora a Mark Ronson, che ha combinato atmosfere orchestrali e riferimenti pop italiani, culminando in un remix di Ancora, ancora, ancora di Mina, divenuto virale su TikTok e Instagram.
Versace, in diverse stagioni, ha arricchito le playlist ufficiali con brani di Mina e Lucio Battisti, evocando l’immaginario solare e spensierato dell’Italia anni ’60. Valentino, fedele al suo registro intimista, ha spesso scelto brani di Paolo Conte, le cui melodie sospese trasformano il défilé in un concerto poetico.
Moschino, infine, ha tradotto in chiave pop-art partiture cinematografiche di Nino Rota, piegandole a un’estetica ironica e destabilizzante. Non si tratta mai di semplici sottofondi musicali: queste selezioni agiscono come architetture narrative che dialogano con tessuti, luci e volumi, trasformando la sfilata in un’esperienza immersiva e totale.
Nel cinema italiano, le canzoni non accompagnano: mettono in scena. In La finestra di fronte (2003) di Ferzan Özpetek, Giorgia firma e interpreta Gocce di memoria (musica di Andrea Guerra), vincendo il Nastro d’Argento e trasformando un dramma intimo in racconto collettivo. In La prima cosa bella (2010), Paolo Virzì costruisce il senso stesso del film sull’omonimo classico di Nicola Di Bari, reinterpretato da Malika Ayane con una delicatezza che amplifica il gioco di nostalgia luminosa al centro della storia.
Con Paolo Sorrentino, l’omaggio alla musica italiana è diventato marchio stilistico. In Parthenope (2024) la colonna sonora ruota attorno a Era già tutto previsto di Riccardo Cocciante (1975), canzone-mantra che attraversa i personaggi e affiancata da Che cosa c’è di Gino Paoli, in un intreccio che rinnova l’eredità dei cantautori anni ’60.
In Il Divo (2008) Sorrentino inserisce La prima cosa bella dei Ricchi e Poveri, dolceamaro contrappunto al ritratto di Andreotti, in La grande bellezza (2013) fa esplodere l’immaginario pop con A far l’amore comincia tu di Raffaella Carrà nel remix di Bob Sinclar, simbolo di un’euforia che diventa decadenza. Ma già negli anni Sessanta e Settanta la canzone d’autore italiana aveva iniziato a dialogare con il cinema: Luigi Tenco, ad esempio, portò la sua voce e le sue canzoni sullo schermo ne La cuccagna di Luciano Salce, restituendo al pubblico l’immagine di una gioventù inquieta e disillusa.
Gino Paoli vide uno dei suoi brani più celebri, Il cielo in una stanza, diventare colonna emotiva di Io la conoscevo bene di Antonio Pietrangeli, dove accompagnava la fragilità luminosa del personaggio di Stefania Sandrelli. E negli stessi anni Lucio Dalla intrecciava la propria ricerca musicale con le immagini di Pupi Avati, firmando partiture originali per film come La casa dalle finestre che ridono, capaci di aggiungere inquietudine e poesia al racconto.
Tre esempi diversi, ma uniti dallo stesso effetto: fissare nel cinema atmosfere e sentimenti che la musica, da sola, non avrebbe potuto trattenere, e che grazie alle immagini sono diventati memoria collettiva.
Tre linguaggi diversi, un’unica funzione: raccontare chi siamo. La moda veste i corpi, la musica amplifica i sentimenti, il cinema li trasforma in storie. Insieme, creano un triangolo identitario che si alimenta di ricordi e immaginari condivisi.
Quando Patty Pravo diventa colonna sonora di Dolce & Gabbana, quando Giorgia amplifica il racconto di Özpetek, quando una passerella riecheggia di Nino Rota, il gesto è sempre lo stesso: custodire un patrimonio e renderlo vivo. In un presente che consuma con velocità, riportare la musica italiana sulle passerelle o al cinema significa scegliere la profondità del ricordo.
Il vero lusso non è indossare un abito unico, ma condividere un patrimonio emotivo. Patty Pravo, Giorgia, Dalla, Cocciante, Paoli o Rota non sono soltanto note: sono specchi di un’identità. E quando risuonano tra i flash di una sfilata o nel buio di una sala, la memoria si rinnova. Diventando emozione viva, ancora capace di vestire lo stile italiano.
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