Sophie Kinsella, l’autrice di I love shopping, è morta a 55 anni, dopo una lunga malattia tenuta riservata per anni. La notizia è arrivata come un fulmine a ciel sereno, diffusa dalla famiglia poche ore fa: un annuncio asciutto, dignitoso, che ha colto il pubblico completamente impreparato.
«Nonostante la sua malattia, che ha portato con inimmaginabile coraggio, Sophie si considerava davvero fortunata ad avere una famiglia e amici così meravigliosi, e ad aver avuto lo straordinario successo della sua carriera di scrittrice. Non dava nulla per scontato ed è stata per sempre grata per l'amore che ha ricevuto», si legge nella nota.
Per molti non era solo una scrittrice da milioni di copie: era una voce che aveva insegnato a ridere dei propri guai, a riconoscersi nelle fragilità, a trovare nella moda un modo per esprimere identità e desideri. La sua scomparsa chiude un capitolo fondamentale della narrativa contemporanea, ma lascia anche una grande eredità.
È stata la prima fashion addicted ad autodenunciarsi con brio e ironia. Tanto che quel primo libro che l’ha fatta conoscere al mondo e ha inaugurato il florido filone del “chick lit” ha venduto oltre 40 milioni di copie nel mondo. Era il 2000, prima delle torri e delle certezze che venivano giù. Si poteva ancora sognare con la sua Becky e con lei combinare guai, senza scomodare diagnosi di dipendenze e altro. Shopaholic era quasi un bel gioco che certo dura poco quando la carta non funziona più. Ma Sophie aveva centrato l’obiettivo di quel mondo avido di vivere e comprare, ed essere insieme a un abito che più che mai faceva esistere.
Per questo al primo I Love Shopping sono seguiti numerosi sequel, tanti quanti gli scompartimenti di una cabina armadio degna di questo nome. Shopping in giro per il mondo, da Las Vegas a Venezia, e in tutti i momenti della vita, dal vestito bianco al baby. Senza dimenticare i numerosi altri romanzi e quelli dedicati ai bambini.
Già, i bambini. Tra un best seller e l’altro ne ha messi al mondo cinque. Perché se il successo le è valso un tesoro, questa ragazza aveva ben chiare le sue priorità: i 5 figli, il matrimonio, una vita sorridente e lieve come raccontano amici e colleghi. Tutto prima di questa fine annunciata tre anni fa, vissuta con una dignità rara.
Sui social il lutto di migliaia di lettori, quegli stessi social che non esistevano quando lei mandava in giro la sua eroina a fare compere. Non erano ancora online, ma ci si affannava sui tacchi con i sacchetti al braccio, sudate e felici. Ebbre di un amore per la moda che pochi come lei hanno saputo raccontare.
Con Becky Bloomwood, Kinsella non ha semplicemente creato un personaggio: ha creato un modello narrativo. La moda non è più sfondo, ma motore psicologico. Ogni acquisto è un’emozione, un bisogno, una fuga, una dichiarazione. È identità pura.
Questa intuizione ha generato un filone che, negli anni, ha invaso cinema, tv e cultura pop. Da Il diavolo veste Prada a Ugly Betty, fino a Emily in Paris: tutti debitori di quella grammatica brillante e febbrile in cui desiderio, stile e vita quotidiana si intrecciano senza complessi.
Kinsella, insieme a Helen Fielding con Il Diario di Bridget Jones,ha aperto la strada a una narrativa femminile diretta, intelligente, imperfetta e autentica. Ha creato un genere. Ha dato voce a un modo di vivere che la critica ha spesso sottovalutato, ma che ha formato intere generazioni.
Non c’è influencer che non abbia, consapevolmente o meno, ereditato quella struttura narrativa: la confessione, l’imprevisto, il consumo come autorappresentazione, la vulnerabilità che si trasforma in racconto.
La sua eredità non può essere più evidente: aver reso la moda un linguaggio. Aver trasformato l’ironia in un dispositivo emotivo. Aver insegnato che la leggerezza, quando è onesta, arriva più lontano di qualsiasi dramma costruito.