C’è una mostra, a Milano, che non si limita a raccontare la storia di un fotografo. La reinventa. Man Ray. Forme di luce, in programma a Palazzo Reale fino all’11 gennaio 2026, è una retrospettiva di straordinaria intensità, capace di riportare in vita l’energia delle avanguardie del Novecento attraverso lo sguardo di un artista che ha trasformato la fotografia in linguaggio poetico.
Il titolo Forme di luce non è solo una definizione della sua tecnica, ma una dichiarazione di poetica. Per Man Ray la luce è forma. A cento anni dalle sue prime sperimentazioni parigine, il suo linguaggio continua a parlare alle nuove generazioni di artisti e creativi, invitandoli a cercare, anche nel buio, una forma di bellezza.
Con oltre cento opere, tra stampe vintage, negativi originali, collage, documenti e oggetti d’atelier, la mostra illumina l’universo di Emmanuel Radnitzky, alias Man Ray, fotografo e pittore americano naturalizzato francese, icona del Dadaismo e del Surrealismo, ma soprattutto eterno sperimentatore della luce.
Portare Man Ray a Palazzo Reale significa riconnettere Milano con la sua tradizione fotografica. L’allestimento gioca con l’idea di luce come materia mobile: pannelli traslucidi, proiezioni e zone d’ombra guidano il visitatore in un viaggio quasi cinematografico.
Per Man Ray, la luce non è mai semplice illuminazione: è un materiale da modellare, un linguaggio con cui reinventare il reale. Le sue celebri rayografie, immagini ottenute senza macchina fotografica, poggiando gli oggetti direttamente sulla carta fotosensibile e poi esponendoli alla luce, sono il manifesto di una nuova estetica, dove l’ombra diventa protagonista.
In mostra, accanto a capolavori come Le Violon d’Ingres (1924) o Noire et blanche (1926), si possono ammirare esperimenti in cui la luce si fa pittura, dissolvendo i confini tra fotografia, sogno e immaginazione. È l’arte che diventa alchimia: il gesto di accendere una lampada o muovere una lente si trasforma in creazione pura.
Nato a Filadelfia nel 1890, cresciuto a New York e consacrato a Parigi, Man Ray fu amico e complice dei grandi del suo tempo: Duchamp, Breton, Picasso, Éluard. Nelle sue immagini, la libertà del Dadaismo incontra la sensualità del Surrealismo. Ogni scatto è un piccolo teatro della mente, dove il corpo femminile diventa paesaggio e gli oggetti quotidiani si caricano di mistero.
Il suo rapporto con la moda fu altrettanto visionario: dalle collaborazioni con Vogue e Harper’s Bazaar negli Anni 30 alle fotografie di Lee Miller, musa e amante, che portò davanti all’obiettivo la grazia enigmatica di un’epoca in trasformazione.
Oggi, il suo immaginario continua a ispirare designer e fotografi, da Maison Margiela a Dior, da Saint Laurent a Tim Walker che ne citano le atmosfere sospese e il bianco e nero onirico nei loro editoriali.
Guardare oggi le opere di Man Ray significa riscoprire la potenza della fantasia in un’epoca iper-visuale. Mentre i social saturano il nostro sguardo di immagini, lui ci ricorda che la fotografia può ancora essere mistero, emozione, pensiero. Le sue modelle - Kiki de Montparnasse, Lee Miller, Nusch Éluard - non sono volti da copertina, ma figure mitiche.
Le sue composizioni sembrano prefigurare la moda concettuale contemporanea: quella che usa il corpo come linguaggio.
E così, nelle sale di Palazzo Reale, la fotografia diventa ancora un raggio che attraversa il tempo per ricordarci che l’arte, come la luce, non si lascia mai imprigionare.
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