Ci sono uomini che diventano icone senza mai provarci e Bruce Springsteen è uno di loro perché la sua non è qualcosa di artificioso ma un'attitudine innata. Jeremy Allen White, che lo interpreta nel nuovo film diretto da Scott Cooper, è un altro. Separati da quarant’anni, ma uniti da un’estetica che sfugge alle regole del glamour.
Springsteen, all’apice degli anni Ottanta, saliva sul palco in jeans slavati, t-shirt bianca e giubbotto di pelle. Nessuno stylist, nessuna posa, nessun tentativo di apparire. Eppure, quell’immagine di semplicità – l’uomo comune con una chitarra in mano – divenne un manifesto estetico mondiale. Il suo look raccontava l’America operaia meglio di qualsiasi editoriale di moda: crudo, realistico, pieno di dignità.
Lo stile di Springsteen non nasce dal desiderio di stupire, ma dalla volontà di essere vero. Sul palco, la sua “divisa” era fatta di camicie western aperte, stivali consumati, jeans vissuti, tessuti grezzi che respiravano insieme al corpo. Ogni capo aveva una funzione narrativa: le maniche arrotolate parlavano di lavoro, la giacca di pelle di resistenza, la maglietta bianca di purezza ferita.
Era l’eleganza di chi non ostenta, quell'estetica del reale che, negli anni dell’immagine patinata di MTV, diventò una rivoluzione silenziosa. Oggi quel linguaggio visivo torna a essere attuale, nell’epoca in cui la moda riscopre il fascino del “meno è più”, del "less is more" e il denim sdrucito come manifesto, dichiarazione di identità.
Springsteen: Deliver Me from Nowhere racconta il momento più fragile e coraggioso della carriera del musicista: la nascita di Nebraska, il disco registrato in solitudine nel 1982, quando Bruce si isolò dal mondo per ritrovare se stesso. Nel film, Jeremy Allen White interpreta quel passaggio con una fisicità trattenuta e un linguaggio del corpo che rispecchia la poetica del silenzio. Il costume design, firmato da Kasia Walicka-Maimone, accompagna la narrazione con una tavolozza sobria: camicie di flanella, cotoni slavati, pelle naturale, denim scolorito. Ogni tessuto racconta la solitudine, il dubbio, la vulnerabilità di un artista che si spoglia del mito per tornare uomo.
Fuori dal set, Jeremy Allen White ha continuato a vestire come se il film non fosse mai finito. Le apparizioni pubbliche di questi mesi parlano chiaro: canotta bianca, jeans loose fit, camicie leggere, giacche di pelle opache, catene sottili e sneakers vintage. Una versione 2025 del vocabolario springsteeniano, dove il rigore si intreccia con la disinvoltura. L’attore di The Bear possiede lo stesso carisma ruvido del Boss, ma tradotto nel linguaggio di oggi: meno muscoli, più introspezione; meno posa, più verità.
Il Boss portava sul palco la forza fisica e la malinconia insieme, un’energia che nasceva dal corpo ma parlava all’anima. Jeremy Allen White ne è la declinazione contemporanea: fragile, reale, magnetico proprio perché imperfetto. Entrambi sono l’antitesi del divismo, due uomini che trasformano la semplicità in linguaggio universale e, forse, il segreto del loro fascino è tutto qui: nella capacità di rendere l’ordinario mitologico. Bruce Springsteen lo fece con una chitarra e un paio di jeans, Jeremy Allen White lo fa oggi con una canotta e uno sguardo pieno di silenzi.
E mentre il film si prepara a raccontare sul grande schermo il momento più vulnerabile del Boss, ciò che resta – in Bruce come in Jeremy – è la stessa, rara lezione di stile: non c’è niente di più elegante che essere sé stessi.
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