Queer di Luca Guadagnino: il nuovo volto del desiderio
Daniel Craig si spoglia di James Bond. Drew Starkey diventa il nuovo volto del desiderio. E Guadagnino firma il suo film più carnale e visionario
Arriva in sala Queer, l’ultima opera di Luca Guadagnino. E non è solo un "film tratto da un romanzo": è un viaggio mentale, sensuale e scomposto. È il sogno lungo trent’anni di un regista che trasforma la letteratura in esperienza visiva e corporea. Ispirato al romanzo di William S. Burroughs - che Guadagnino lesse durante l’adolescenza e ne rimase folgorato - Queer è ambientato a Città del Messico degli Anni 50, ma sembra muoversi in una geografia interiore, tra desideri irrisolti, visioni febbricitanti e ossessioni che non trovano pace.
Per Guadagnino è il film più personale. Dopo Chiamami col tuo nome e Bones and All, anche questa volta parte da un libro - in questo caso pietra miliare della Beat Generation - e lo trasforma in qualcosa di fisico, magnetico, disturbante. Assolutamente attuale.
Daniel Craig: addio 007

Dimenticate il Bond impeccabile. Qui Daniel Craig è tutto il contrario: disfatto, fragile, perso. Nel ruolo di Lee – alter ego dello stesso Burroughs – è un uomo che desidera, che suda, che insegue corpi giovani che gli sfuggono. Una performance intensa, cruda, senza maschere. Il suo volto è segnato, la sua voce è stanca. Ma è proprio in questa nudità che trova la forza di reinventarsi. Craig dimostra di essere molto più di un’icona d’azione: è un attore capace di sporcarsi, di rischiare. E in Queer firma uno dei ruoli più forti della sua carriera.
Drew Starkey: la nuova musa di Guadagnino

Ogni regista ha i suoi volti. Guadagnino ha sempre saputo riconoscerli prima degli altri: Timothée Chalamet, Zendaya, ora Drew Starkey. In Queer Starkey interpreta Allerton, un marine sfuggente, enigmatico, crudele. È l’oggetto del desiderio di Lee, ma anche il suo tormento. Un personaggio che non dà risposte, ma diventa un’ossessione. Il suo fascino è tutto nella distanza: seduce senza toccare, ferisce senza parlare. È il tipo di presenza che Guadagnino ama: intensa, fisica, muta. E con Queer Starkey entra a pieno titolo tra le icone del suo cinema.
Guadagnino e i suoi attori feticcio

Non è un caso: Guadagnino costruisce mondi attorno ai suoi attori. In ogni film li sceglie e li trasforma, tirando fuori la loro anima più profonda.
Con Chalamet ha raccontato l’innocenza che brucia. Con Zendaya ha giocato con l’icona pop in Challengers. Con Daniel Craig destruttura il mito. Con Starkey reinventa l’estetica dell’amore queer.
Sogni, segreti e simboli

Queer non è una love story. È un viaggio nella testa di chi ama troppo. Oggi lo definiremmo “un amore tossico”. Guadagnino costruisce il film come una spirale onirica. Non tutto ha senso. Ma tutto ha peso. Ogni dettaglio – un gesto, un oggetto, un’inquadratura – parla. Come il millepiedi, insetto viscido e velenoso che torna nei sogni di Lee. Come la luce sporca di una stanza d’albergo. Come il volto impassibile di Allerton. E anche senza conoscere la storia di Burroughs, il film arriva dritto allo stomaco. È un’allucinazione emotiva. Un sogno da cui non si vuole uscire. Ma se si approfondisce la biografia dello scrittore e la sua creazione artistica, il film si carica di messaggi profondi e svariate chiavi di lettura.
L’estetica queer secondo Luca
Il queer di Guadagnino non è patinato, non è rassicurante: è fatto di desideri pericolosi e confini sfocati. È un cinema poetico e ruvido, onirico e ossessivo.
È un film che turba e smuove e che segna un nuovo capitolo della carriera del grande regista italiano, capace di conquistare tutte le generazioni, soprattutto i più giovani. Per la sua sincerità e autenticità, e capacità di andare oltre se stesso, mettendosi costantemente alla prova.
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