Nel mezzo del design: Lexus e l’arte dell’in-between
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L’architettura, come il cinema, è una forma d’arte che abita il tempo e lo spazio. Lo modella, lo attraversa, lo ridefinisce. E non è un caso che Lexus – marchio automobilistico, certo, ma con la curiosità di un collezionista e la disciplina di un artigiano – abbia scelto Venezia per raccontare la sua idea di futuro con l’anteprima nazionale della sua nuova ammiraglia ES. Qui, dove la Mostra del Cinema e la Biennale di Architettura si sfiorano lungo lo stesso Lido, prende forma un racconto che mescola pellicole e planimetrie, ingegneria e visione.

Il tema scelto per la Biennale Architettura 2025, curata da Carlo Ratti, è una provocazione dolce e necessaria: Intelligens: Naturale. Artificiale. Collettiva. Un invito a superare le barriere tra ciò che è umano e ciò che non lo è, tra la natura e il codice, tra il progetto e la spontaneità. Il Padiglione del Giappone, firmato da Jun Aoki, risponde con il concetto di in-between: quello spazio-tempo intermedio – il ma della tradizione nipponica – in cui l’identità non risiede né nel soggetto né nell’oggetto, ma nel dialogo tra i due.

Non è difficile trovare una risonanza con l’universo Lexus, che da sempre ricerca l’equilibrio tra innovazione tecnologica e sensibilità umana. Tra hardware e anima. Il nuovo RZ, sport utility elettrico del marchio, incarna alla perfezione questa tensione: sterzata elettronica steer-by-wire, trazione intelligente, design affilato come un’architettura brutalista, ma accogliente come una casa giapponese in cui ogni dettaglio è pensato per far sentire l’ospite parte di un rito. Il futuro è qui, ma ha imparato a sedersi sul tatami.

Il valore dello spazio che resta
Nel concetto giapponese di in-between, così centrale nel Padiglione della Biennale, ciò che conta non è solo la presenza, ma anche l’assenza. Il vuoto non è mancanza: è potenzialità. È uno spazio abitabile dal pensiero, dalla relazione, dalla cura. Lo spazio vuoto è una forma di rispetto. Un tempo di silenzio prima che la musica inizi. Lexus, come il Padiglione Giappone, non riempie ogni centimetro: lascia che l’aria respiri, che la luce entri, che l’emozione trovi il suo ritmo.

Lo si vede anche nel modo in cui interpreta il concetto di accoglienza: l’Omotenashi, parola intraducibile eppure evidente. Significa pensare al cliente prima ancora che varchi la soglia. Sorprenderlo non con effetti speciali, ma con un massaggio shiatsu mentre viaggia, con un sedile che si reclina esattamente di 48 gradi. È una filosofia del dettaglio che non ha bisogno di spiegazioni: si sente, si vive.
Venezia come laboratorio
In questo scenario veneziano, Lexus assume un ruolo laterale e al tempo stesso centrale. Non urla, ma si fa notare. Non esibisce, ma accompagna. È la presenza silenziosa che porta le star della Mostra del Cinema sul red carpet, con modelli come LBX, NX e RZ. Ma è anche il brand che sussurra concetti complessi come sostenibilità, percezione, rapporto tra uomo e macchina, senza retorica e senza moralismi.

«RZ si muove in questo contesto come un oggetto d’arte dinamico. Le sue linee sono studiate per rifrangere la luce, i suoi interni progettati per assecondare il corpo, la tecnologia sviluppata per essere invisibile e intuitiva. È la Lexus Driving Signature, ma è anche una filosofia progettuale che potremmo definire architettura del movimento», spiega Paolo Moroni, direttore di Lexus Italia.
In-between, ancora
Nel Padiglione del Giappone si parla di intelligenza collettiva, di relazione tra naturale e artificiale. Lexus risponde con una gamma multi-tecnologica pensata per non escludere nessuno, per dare a ogni cliente la possibilità di scegliere il proprio percorso verso l’elettrificazione. È un’altra forma di in-between: non si tratta di opporre il passato al futuro, ma di costruire un ponte tra i due.

Chi pensa che un’automobile sia solo un mezzo di trasporto non ha mai guardato una Lexus con gli occhi del design. Non ha colto la tensione poetica tra il silenzio e l’energia, tra la superficie e la profondità, tra ciò che è e ciò che potrebbe essere. Questo episodio non è un omaggio a un brand, ma a una visione: quella in cui l’estetica diventa etica, e il design non serve a colpire, ma a connettere.
Come in ogni grande opera architettonica.
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