C’è una linea sottile che separa la genialità dalla fragilità mentale. Una linea che attraversa secoli, discipline e miti culturali — e che torna al centro dell’attenzione proprio oggi, in occasione della Giornata mondiale della salute mentale.
“Perché tutti gli uomini straordinari sono malinconici?”
Si domandava, citando Aristotele, il saggista seicentesco Robert Burton nel suo L’anatomia della malinconia riprendendo uno dei temi, che sin dall’antica Grecia affascina filosofi, pensatori e ora anche le neuroscienze: esiste un rapporto tra genialità e disturbo mentale?
Una domanda che attraversa secoli e discipline, e che ancora oggi suscita fascino, inquietudine, e una certa dose di romanticismo.
Ma quanto c’è di vero, davvero, nell’idea che per essere creativi si debba essere anche un po’ folli?
Aristotele notava che molte personalità eminenti della sua epoca mostravano tratti di quella che chiamava melanconia: instabilità dell’umore, comportamenti imprevedibili, tendenze all'isolamento. Oggi gli scienziati riconducono molti di questi sintomi ai disturbi dell’umore, in particolare al disturbo bipolare, dove la creatività spesso si manifesta in fasi ipomaniacali, mentre l’umore può crollare repentinamente verso la depressione.
L’idea che la sofferenza psichica e l’ingegno possano coesistere non ha mai smesso di circolare. Seneca, nei suoi Dialoghi, scriveva che “non esiste ingegno senza un tocco di follia”.
Il rapporto tra genio e follia ha creato un’aura romantica attorno alle vite dei grandi artisti tormentati come Caravaggio, che nei suoi quadri ha raccontato le luci e le ombre profonde della sua vita spericolata ma anche piena di dolore. E durante il positivismo, Cesare Lombroso — padre della criminologia moderna — arrivò persino a tracciare un filo diretto tra genio, follia e devianza.
Ma attenzione: confondere la sofferenza mentale con il talento è pericoloso. Dietro il mito, c’è la realtà di una condizione di sofferenza.
Non è la malattia a creare l’arte, ma, in alcuni casi, può diventare parte del percorso di un’artista.
La lista degli artisti affetti da disturbi psichici è lunga. Van Gogh, affetto da crisi psicotiche e allucinazioni, trasforma il suo dolore in pittura. Il colore, la materia, la luce: tutto diventa mezzo per ordinare un caos interiore che non riesce a contenere. Edvard Munch, autore de L’urlo, dichiarò che senza l’angoscia e la malattia non sarebbe mai diventato artista.
Virginia Woolf che lottò per tutta la vita contro quella che lei definiva “follia” – e che ha raccontato nei suoi romanzi come Mrs Dalloway e nel saggio Sulla malattia - considerava la malattia, sia fisica che mentale, un'esperienza che alterava la percezione e poteva portare a una nuova comprensione della realtà, offrendo un punto di vista unico, distaccato dalla vita sociale "normale" e focalizzato sulla propria interiorità; Alda Merini, che definiva la follia come “una maggiore acutezza dei sensi”, ha trasformato la sua esperienza manicomiale in poesia.
La letteratura abbonda di esempi: Edgar Allan Poe, perseguitato da ossessioni e angosce; Leopardi, la cui ipersensibilità conviveva con una fragile salute mentale e fisica; Hemingway, Byron, Sylvia Plath che nel suo unico romanzo La campana di vetro ha raccontato la verità e la crudeltà delle cure psichiatriche negli anni ’50. In Italia c'è Cesare Pavese, il cui disagio esistenziale ha portato a romanzi straordinari ma anche ad una vita contrassegnata dalla fragilità e dalla solitudine.
L’elenco è lungo, e spesso ha esiti tragici per le vite degli artisti.
Nel campo della scienza, il caso forse più noto è John Nash, matematico e premio Nobel per l’economia, la cui vita con la schizofrenia paranoide è stata raccontata nel film A Beautiful Mind. Nash è l’esempio di come, nonostante la malattia — e non grazie a essa — si possa comunque generare bellezza, intelligenza, innovazione.
È su questo punto che interviene una figura chiave del Novecento: Karl Jaspers, filosofo e psichiatra tedesco. Nel suo libro Genio e Follia – Strindberg e Van Gogh (1922, uscito in Italia con prefazione di Umberto Galimberti nel 1990) Jaspers introduce il concetto di patografia, ovvero l’analisi dell’opera artistica alla luce della storia clinica del suo autore.
Jaspers studia quattro figure emblematiche: Strindberg, Swedenborg, Hölderlin e Van Gogh, mostrando come in alcuni casi la malattia mentale abbia effettivamente influenzato la visione del mondo e lo stile creativo. Non è la malattia a “produrre” arte, ma il modo in cui l’artista riesce a trasformarla in espressione. In Van Gogh, ad esempio, non è la psicosi a generare i quadri, ma la sua capacità di restare aggrappato al pennello anche durante i momenti più difficili. È la volontà di dare forma al disordine, non il disordine stesso.
Le neuroscienze moderne hanno cominciato a studiare questi fenomeni da vicino. Alcuni ricercatori, come James Fallon, hanno osservato somiglianze tra la fase “ipomaniacale” del disturbo bipolare e l’attivazione cerebrale che avviene durante momenti creativi intensi. La dopamina, neurotrasmettitore legato al piacere e alla ricompensa, è coinvolta sia nella creatività che nelle fasi maniacali.
Studi epidemiologici condotti in Islanda (Kari Stefansson) e in Svezia (Karolinska Institute) mostrano che le varianti genetiche associate a disturbi psichiatrici sono più comuni in famiglie di artisti: scrittori, musicisti, ballerini. Una correlazione che lascia intuire radici condivise tra vulnerabilità e talento, anche se il confine tra predisposizione e patologia resta sottile.
Importante sottolineare che la forma più grave di malattia mentale, spesso, limita la creatività. È nei casi più lievi, in quei tratti borderline, che si osserva la possibilità di pensare fuori dagli schemi.
La letteratura contemporanea spesso si interfaccia con il tema della salute mentale, raccontando il disagio non come etichetta, ma come esperienza di vita.
In Follia (1996) di Patrick McGrath, recentemente riscoperto grazie al passaparola sui social, la psicosi si intreccia con una passione estrema e distruttiva. Ambientato in un ospedale psichiatrico, il romanzo mostra da vicino i confini labili tra amore, ossessione e delirio.
Nel bestseller Il mio anno di riposo e oblio di Ottessa Moshfegh, una giovane donna borghese sceglie di spegnere la coscienza con psicofarmaci, tentando di uscire dal rumore e dalla pressione sociale attraverso l’autosospensione. È un libro spietato e ironico sul malessere contemporaneo, e sul confine tra apatia e ribellione.
Con Tutto chiede salvezza, Premio Strega Giovani, Daniele Mencarelli – diventato anche una serie televisiva di successo- accompagna invece dentro un reparto psichiatrico, dopo un TSO subito a vent’anni. La sua voce poetica e disarmata ci parla della fragilità come condizione umana universale.
Come scriveva ancora Jaspers, ci sono artisti che, in mezzo alla crisi, riescono a cogliere “una fonte ultima dell’esistenza”, un momento in cui il dolore si trasforma in visione. È un’eccezione, non una regola.
Non serve essere folli per essere creativi, ma forse serve una certa elasticità mentale, una tolleranza all’ambiguità, una capacità di esplorare territori inesplorati — anche interiori.
Pensare in modo creativo significa spesso semplicemente non avere paura di essere un po’ strani, di non seguire le regole. Di lasciarsi andare ai propri sentimenti e di percorrere strade inaspettate, soprattutto nei confronti della percezione di sé. E di quello che la società spesso presenta come “giusto”.
In occasione della Giornata mondiale della salute mentale, ricordare il confine tra genio e follia significa anche superare lo stigma che circonda la sofferenza psichica. Non è la malattia a generare arte o intelligenza, ma la capacità di trasformare la vulnerabilità in consapevolezza, e il dolore in linguaggio.
Ricordandoci che, citando la celeberrima frase di Franco Basaglia, “Da vicino nessuno è normale”.
Leggi anche: