C’è un’aria nuova a Milano, e non è quella delle caldarroste di Lambrate o dei capannoni di Bovisa. Dal 18 ottobre al 22 febbraio 2026, a Sesto San Giovanni, proprio laddove un tempo si respirava polvere di fabbrica e dignità operaia, arriva Euphoria – Art is in the Air, la mostra itinerante del Balloon Museum. Qui l’aria non serve a gonfiare i polmoni dei lavoratori, ma a dare vita a creature artistiche che oscillano tra il ludico e il metafisico, tra il gonfiabile e l’intangibile.
Più di cinquemila metri quadri di spazio industriale vengono riempiti non da macchinari ma da opere che hanno il vizio dell’effimero: palloncini, strutture gonfiabili, installazioni che fanno dell’aria – invisibile, impalpabile e solitamente gratuita – la protagonista assoluta.
Milano si presta bene al gioco: la città che ha trasformato la moda in economia e il design in religione, poteva non accogliere l’aria come nuova materia prima? Si dirà che la capitale del Nord vive di concretezza, ma chi conosce i suoi riti mondani sa bene quanto ami anche le cose leggere: gli aperitivi allungati fino a notte, le scarpe mai troppo comode, le mostre in cui il selfie è più importante della didascalia.
Non stupisce allora che, dopo New York, Parigi e Singapore, Euphoria gonfi anche le ex acciaierie di Sesto, trasformandole in un acquario surreale per adulti smaliziati e bambini perplessi.
Philippe Parreno, artista che ha fatto della percezione un’arte più affilata di un bisturi, porta a Milano il suo My Room is Another Fish Bowl. Pesci di palloncino gonfiati a elio vagano nello spazio osservando il pubblico con occhietti insistenti. Il risultato è che, per una volta, non siamo noi a fissare l’opera, ma è l’opera a scrutare noi. Una piccola rivoluzione antropologica: dall’uomo padrone della natura all’uomo osservato da creature sintetiche. In un’epoca in cui gli algoritmi ci sorvegliano più di quanto faccia il vicino di pianerottolo, i pesci di Parreno sono il nostro specchio: fluttuanti, silenziosi e implacabili.
Di altra poesia è invece New Spring di A.A. Murakami (Azusa Murakami e Alexander Groves). Qui le bolle non sono quelle del Prosecco che affolla gli aperitivi milanesi, ma sfere eteree che scoppiano diffondendo nebbia e malinconia. L’ispirazione viene dal sakura giapponese, fiore che si concede nel momento del suo massimo splendore per poi disfarsi senza rimpianti.
Le bolle, fragili e vaporose, raccontano proprio questo: la vita come parentesi bellissima e breve, un promemoria che nessun algoritmo potrà mai programmare. Eppure, mentre la bolla ci scoppia sul naso, la città attorno continua a correre, infilandosi in metropolitane affollate e in riunioni connessi su tre dispositivi contemporaneamente. Ironia dell’arte: ci invita a contemplare l’effimero mentre noi controlliamo compulsivamente l’orologio. Per fortuna, oltre la mostra, esistono dei luoghi sospesi in cui riappropriarsi del proprio tempo.
Ci sono poi gli artisti che hanno fatto del gioco una trappola raffinata. Martin Creed, maestro del minimalismo concettuale e della provocazione, presenta Half the air in a given space. Una serra riempita di palloncini azzurri, dove il visitatore entra e perde immediatamente il senso dell’orientamento. Il cielo in terra, ma senza coordinate. Un labirinto morbido che ci confonde e ci disarma, ricordandoci che il controllo che pensiamo di avere – sulla vita, sulla città, persino sul traffico mattutino – è solo una bolla di plastica. L’aria, intrappolata nei palloncini, diventa visibile, tangibile, ma allo stesso tempo ci avvolge e ci priva di riferimenti. Una metafora impietosa, mascherata da gioco da bambini.
A Milano l’arte non è mai senza parole, e infatti Ryan Gander riempie le sue sfere giganti di domande assurde, stampate in bella evidenza: provocazioni che rotolano insieme al pubblico, costringendolo a interagire. È un’opera che funziona come una cena mondana in Brera: più domande che risposte, più movimento che contenuto. Ma il vero colpo di genio è che le sfere, spostandosi, rivelano frasi nuove, costringendoci a mettere in discussione ciò che avevamo appena letto. Proprio come i trend del momento: un giorno la cryptoarte, il giorno dopo la ceramica artigianale. L’opera di Gander ci dice che viviamo in un eterno campo da gioco, e che la superficialità è una scelta estetica mascherata da libertà.
Alla fine, Euphoria – Art is in the Air non è solo una mostra: è un manuale di sopravvivenza per chi vive in città sospese tra ansia e glamour. Sesto San Giovanni, da enclave operaia a teatro del gonfiabile, diventa il palcoscenico di un paradosso: qui dove tutto era pesante, rugginoso e concreto, oggi domina la leggerezza dell’aria. È l’ennesima metamorfosi milanese: la città che ha trasformato il panettone in brand internazionale ora trasforma l’aria in installazione.
Certo, i visitatori si accalcheranno armati di smartphone, e forse il ricordo più diffuso della mostra sarà una serie di immagini patinate con filtri instagrammabili. Ma l’arte gonfiabile, con la sua disarmante semplicità, ha il potere di infilarsi dove meno ce lo aspettiamo: in un respiro, in una risata, in un passo incerto tra i palloncini di Creed o nello sguardo sospeso di un pesce di Parreno.
Milano, città che ama correre, vestirsi bene e fingere di non avere tempo, si concede per qualche ora al lusso più raro: la leggerezza. E non è poco, in un mondo che pesa ogni gesto come fosse una borsa di Hermès: finalmente una mostra che ci ricorda che l’aria non serve solo a respirare, ma anche a sognare.
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